Danilo Ruggero racconta "Puzzle"
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29/10/2025 | lorenzotiezzi
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Dopo anni di scrittura, palco e sperimentazione, Danilo Ruggero torna con un disco che segna una svolta personale e artistica. Con Puzzle apre una nuova fase del suo percorso, tra urgenza espressiva e libertà creativa. Ne abbiamo parlato con lui, senza filtri.
In Puzzle la dimensione autobiografica è evidente, ma mai del tutto esplicita. Come decidi cosa raccontare apertamente e cosa lasciare in sospensione?
Non credo di decidere davvero. Quando scrivo, nella ricerca dei versi e nelle cose che voglio comunicare, mi lascio spesso guidare da una parte totalmente istintiva, esattamente quella che mi guida nella scrittura del mio diario. Poi rimetto in ordine in un secondo momento, ma anche in quel frangente raramente censuro, ometto o cancello cose che sono venute fuori in maniera naturale nella prima fase compositiva. Non m'importa quanto possano rischiare di mostrarmi fragile. Per me scrivere è un flusso di coscienza che non voglio e non cerco quasi mai di arrestare e, per quanto le cose che scrivo rischino di mettermi a nudo, ciò rende il racconto più fedele a quello che provo e a quello che sono. Credo si chiami “identità narrativa”: quell'Io che tenta di ricostruirsi attraverso i racconti che fa di sé. È questo ciò che cerco di fare attraverso la scrittura, attraverso la musica. Prima in maniera inconsapevole, adesso in modo più cosciente. La dimensione autobiografica è totalmente evidente, hai ragione. Soprattutto in questo EP, Puzzle.
Portare dal vivo un disco così intimo può essere una sfida. Come cambia il rapporto con queste canzoni quando passano dallo spazio privato della scrittura al contatto diretto con il pubblico?
Quando scrivo, la mia stanza è uno spazio sistemato e arredato in cui ci sono solo io. Sul palco, invece, quando la gente ti ascolta ed è attenta, si riflette tutto, cambia forma. L'esperienza umana e l'aperta condivisione delle proprie fragilità, a parer mio, interrompono quel meccanismo di isolamento che il senso di colpa o la vergogna alimentano. Quando ci riconosciamo vulnerabili, aprirci agli altri ci rende più forti. Mi piace sperare che l'introspezione che credevo solo mia, e che cerco di raccontare con le canzoni e i loro racconti, possa aiutare gli altri a riguardarsi da altri punti di vista, a rivalutare i danni, a minimizzare gli errori. Scrivere aiuta a costruire un'intimità verticale, mentre il live penso la trasformi in un'intimità orizzontale, condivisa.
Nei tuoi lavori precedenti c'era già una forte componente introspettiva, ma in Puzzle emerge una scelta più netta di restare dentro le crepe e i vuoti. Cosa ti ha portato a spingerti così a fondo in questa direzione?
Nelle mie canzoni credo di aver raccontato sempre qualcosa in più della superficie. Ricominciare a scrivere dopo un lungo periodo di blocco e, al contempo, fare un lungo percorso di analisi mi ha aiutato a riflettere su tante cose del mio passato e, banalmente, a rivalutare il mio futuro. Ho sentito la necessità di raccogliere i cocci, guardare da vicino quelle crepe che mi stavano risucchiando in quel senso di incompiutezza di chi si arrende. Ho appuntato tutto, di nuovo giorno per giorno. Ho accettato di essere rotto. Ho riscritto il mio diario, provato a fare nuove canzoni e ho capito che, anche se non siamo tutti interi, siamo vivi lo stesso. È questo quello che conta ed è questo che cerco di raccontare con Puzzle: la felicità anche a piccoli pezzi.
La presenza di due versioni di “Puzzle” apre a letture diverse dello stesso brano. Cosa ti interessa che l'ascoltatore colga da questo doppio sguardo?
Le due versioni convivono come due stanze diverse dello stesso appartamento. La prima è stratificata, ragionata. La seconda (la versione alternativa) è praticamente la demo fatta in casa alle tre del mattino, che ha quella scintilla che, se non ci fosse stata nell'EP, avrebbe lasciato un vuoto. Non voglio che l'ascoltatore scelga una delle due, ma che abiti entrambe. L'una racconta ciò che l'altra tace. Nella complessità non sempre esiste un'unica voce giusta: a volte non bisogna sorprendersi che la verità possa avere più registri contemporaneamente.
In più punti dell'EP emerge un equilibrio delicato tra arrangiamenti curati e una certa ruvidità “da demo”. Quanto è stato calcolato e quanto invece frutto di lasciare intatta la prima urgenza creativa?
Ho avuto la necessità di lasciare intatta la prima urgenza creativa. Con Pasquale Dipace e Alberto Laruccia abbiamo lavorato tanto su ogni traccia e poi seguito ogni uscita. Ogni brano nasce con una sua urgenza e il rischio, nella produzione di un EP a distanza e dilatata nel tempo, è quello di smussare e omologare tutto. In Puzzle abbiamo cercato di non perdere quell'energia primitiva che sentivamo dalle pre-produzioni e di portarci fino in fase di pubblicazione. Del sound generale e dell'omologazione tra le tracce ci siamo un po' disinteressati, a dire il vero. Anche perché ho deciso di far uscire ogni brano dell'EP come fosse un singolo, quindi ci concentravamo su ognuno, uno alla volta. Non posso dire che fosse tutto calcolato, ma ricalcolato e riesaminato giorno per giorno, sì.
Molti brani nascono da immagini e frasi molto concrete. Quanto contano, per te, i dettagli visivi e sensoriali nella costruzione di una canzone?
Contano tantissimo. Per me una canzone non nasce mai da un concetto astratto, ma da un'immagine, che poi si trasforma in pellicola e che cerco di descrivere attraverso le parole, sulla giusta melodia e i giusti accordi. Mi rifaccio a piccoli appigli concreti, che sono la mia memoria da cui si dipana tutto il resto. I dettagli sensoriali funzionano un po' come portali: aprono mondi emotivi molto più vasti. Un sapore o un odore possono spalancare memorie infinite. Allo stesso modo, una parola o un'immagine concreta in un testo diventano un detonatore di significati molto più ampi.
Questo accade a me quando scrivo, mi riascolto, mi rileggo, ma anche quando scopro e ascolto nuova musica.
In Puzzle la dimensione autobiografica è evidente, ma mai del tutto esplicita. Come decidi cosa raccontare apertamente e cosa lasciare in sospensione?
Non credo di decidere davvero. Quando scrivo, nella ricerca dei versi e nelle cose che voglio comunicare, mi lascio spesso guidare da una parte totalmente istintiva, esattamente quella che mi guida nella scrittura del mio diario. Poi rimetto in ordine in un secondo momento, ma anche in quel frangente raramente censuro, ometto o cancello cose che sono venute fuori in maniera naturale nella prima fase compositiva. Non m'importa quanto possano rischiare di mostrarmi fragile. Per me scrivere è un flusso di coscienza che non voglio e non cerco quasi mai di arrestare e, per quanto le cose che scrivo rischino di mettermi a nudo, ciò rende il racconto più fedele a quello che provo e a quello che sono. Credo si chiami “identità narrativa”: quell'Io che tenta di ricostruirsi attraverso i racconti che fa di sé. È questo ciò che cerco di fare attraverso la scrittura, attraverso la musica. Prima in maniera inconsapevole, adesso in modo più cosciente. La dimensione autobiografica è totalmente evidente, hai ragione. Soprattutto in questo EP, Puzzle.
Portare dal vivo un disco così intimo può essere una sfida. Come cambia il rapporto con queste canzoni quando passano dallo spazio privato della scrittura al contatto diretto con il pubblico?
Quando scrivo, la mia stanza è uno spazio sistemato e arredato in cui ci sono solo io. Sul palco, invece, quando la gente ti ascolta ed è attenta, si riflette tutto, cambia forma. L'esperienza umana e l'aperta condivisione delle proprie fragilità, a parer mio, interrompono quel meccanismo di isolamento che il senso di colpa o la vergogna alimentano. Quando ci riconosciamo vulnerabili, aprirci agli altri ci rende più forti. Mi piace sperare che l'introspezione che credevo solo mia, e che cerco di raccontare con le canzoni e i loro racconti, possa aiutare gli altri a riguardarsi da altri punti di vista, a rivalutare i danni, a minimizzare gli errori. Scrivere aiuta a costruire un'intimità verticale, mentre il live penso la trasformi in un'intimità orizzontale, condivisa.
Nei tuoi lavori precedenti c'era già una forte componente introspettiva, ma in Puzzle emerge una scelta più netta di restare dentro le crepe e i vuoti. Cosa ti ha portato a spingerti così a fondo in questa direzione?
Nelle mie canzoni credo di aver raccontato sempre qualcosa in più della superficie. Ricominciare a scrivere dopo un lungo periodo di blocco e, al contempo, fare un lungo percorso di analisi mi ha aiutato a riflettere su tante cose del mio passato e, banalmente, a rivalutare il mio futuro. Ho sentito la necessità di raccogliere i cocci, guardare da vicino quelle crepe che mi stavano risucchiando in quel senso di incompiutezza di chi si arrende. Ho appuntato tutto, di nuovo giorno per giorno. Ho accettato di essere rotto. Ho riscritto il mio diario, provato a fare nuove canzoni e ho capito che, anche se non siamo tutti interi, siamo vivi lo stesso. È questo quello che conta ed è questo che cerco di raccontare con Puzzle: la felicità anche a piccoli pezzi.
La presenza di due versioni di “Puzzle” apre a letture diverse dello stesso brano. Cosa ti interessa che l'ascoltatore colga da questo doppio sguardo?
Le due versioni convivono come due stanze diverse dello stesso appartamento. La prima è stratificata, ragionata. La seconda (la versione alternativa) è praticamente la demo fatta in casa alle tre del mattino, che ha quella scintilla che, se non ci fosse stata nell'EP, avrebbe lasciato un vuoto. Non voglio che l'ascoltatore scelga una delle due, ma che abiti entrambe. L'una racconta ciò che l'altra tace. Nella complessità non sempre esiste un'unica voce giusta: a volte non bisogna sorprendersi che la verità possa avere più registri contemporaneamente.
In più punti dell'EP emerge un equilibrio delicato tra arrangiamenti curati e una certa ruvidità “da demo”. Quanto è stato calcolato e quanto invece frutto di lasciare intatta la prima urgenza creativa?
Ho avuto la necessità di lasciare intatta la prima urgenza creativa. Con Pasquale Dipace e Alberto Laruccia abbiamo lavorato tanto su ogni traccia e poi seguito ogni uscita. Ogni brano nasce con una sua urgenza e il rischio, nella produzione di un EP a distanza e dilatata nel tempo, è quello di smussare e omologare tutto. In Puzzle abbiamo cercato di non perdere quell'energia primitiva che sentivamo dalle pre-produzioni e di portarci fino in fase di pubblicazione. Del sound generale e dell'omologazione tra le tracce ci siamo un po' disinteressati, a dire il vero. Anche perché ho deciso di far uscire ogni brano dell'EP come fosse un singolo, quindi ci concentravamo su ognuno, uno alla volta. Non posso dire che fosse tutto calcolato, ma ricalcolato e riesaminato giorno per giorno, sì.
Molti brani nascono da immagini e frasi molto concrete. Quanto contano, per te, i dettagli visivi e sensoriali nella costruzione di una canzone?
Contano tantissimo. Per me una canzone non nasce mai da un concetto astratto, ma da un'immagine, che poi si trasforma in pellicola e che cerco di descrivere attraverso le parole, sulla giusta melodia e i giusti accordi. Mi rifaccio a piccoli appigli concreti, che sono la mia memoria da cui si dipana tutto il resto. I dettagli sensoriali funzionano un po' come portali: aprono mondi emotivi molto più vasti. Un sapore o un odore possono spalancare memorie infinite. Allo stesso modo, una parola o un'immagine concreta in un testo diventano un detonatore di significati molto più ampi.
Questo accade a me quando scrivo, mi riascolto, mi rileggo, ma anche quando scopro e ascolto nuova musica.
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